It takes two. In cerca di un mentore

Questa è Ok boomer, una newsletter per parlare di generazioni e dunque di noi.

Fa più notizia il conflitto che l’alleanza, anche tra generazioni, ma è ovviamente possibile trovare un equilibrio. Per tante incomprensioni, per tanti millennials che sopportano e pensano Ok boomer, ci sono anche un mare di opportunità, appena proviamo a capirci. Il problema è che questo tipo di dialogo richiede tempo, lavoro, attenzione.

Limitiamoci alla sfera professionale. Quanti di voi possono dire di avere un mentore? La Treccani definisce: un mentore è un “fido consigliere”, una “guida saggia”. Mi correggerete, ma temo che la pratica non sia così diffusa nel mercato del lavoro italiano, dove a volte sembra non ci sia tempo nemmeno per un respiro, figurarsi per una conversazione matura, costante, consapevole.

A volte forse abbiamo un mentore ma non lo sappiamo. Quel collega un po’ più senior con cui andate a pranzo una volta al mese per parlare di lavoro è un mentore? Dipende. Non ci si stringe la mano per dire, “hey, vuoi essere il mio mentore?”, ma è necessaria una reciproca consapevolezza e un reciproco interesse. Non è facile.

In numeri, dagli Stati Uniti, dove spesso ogni cosa è organizzata, e dunque poi si deve fare: il 71% delle grandi aziende ha programmi di mentorship. Il 97% di chi ha un mentore ne riconosce il valore e il 91% è soddisfatto dal proprio lavoro. Eppure solo il 37% ha un mentore. Infine, l’89% di chi ha avuto un mentore si spenderà come mentore con altri in futuro. Benvenuti nel club.

Ho pensato spesso a questo ruolo. In parte perché sono fortunato e ho incontrato delle persone sagge e fidate con cui parlare nel corso degli anni. In parte perché invece questi legami sono molto complicati dal contesto dell’istante. Forse sono persone che sanno molto più di me di una certa cosa o di un modo di fare in una certa azienda in una certa epoca storica. Ma non sempre c’è uno sguardo d’insieme, un interesse genuino. Dunque non sono veri mentori.

Ho ripreso il filo del pensiero leggendo della vita di Virgil Abloh, il designer che molti, più esperti di me nella moda, definiscono rivoluzionario. Abloh aveva 41 anni, era da poco diventato direttore artistico di Louis Vuitton, è morto a fine novembre. La sua morte mi aveva colpito perché da qualche mese mi ero messo a seguire il suo lavoro. Ora, io di moda non capisco e non capirò, ma da non esperto e buon ultimo (amici esperti di moda, mi rendo conto suoni come se un profano di calcio vi dicesse, “mi sono appassionato a questo tal giocatore, si chiama Diego Armando Maradona”), da buon ultimo, dicevo, avevo incrociato il suo sguardo. Mi era parso così contemporaneo.

Dunque, Abloh ha avuto una vita piena, ha inventato, disegnato, trasformato il significato di fashion, dice il New York Times. Faceva il dj, disegnava anche mobili, aveva una famiglia. Non gli mancavano le cose da fare, ma mi ha colpito che molti abbiano voluto ricordare il suo interesse per il ruolo di mentore. Abloh aveva lanciato un programma di mentorship ed era noto nell’industry per voler passare il testimone.

Jo Ellison sul Financial Times si è chiesta quanti oggi siano i leader in grado di farlo davvero. È complicato: c’è il rischio di passare come boomer che vuole spiegare le cose (ricorderò sempre l’urlo di un mio collega senior – preciso, non mentore – che, appena sentito il nome di un potenziale intervistato o ufficio stampa, rispondeva: “tipica imprecazione dialettale di cinque lettere! Nome Cognome lo conosco da vent’anni”). E c’è il rischio che la prassi corporate renda anche quest’attività, così umana, un ennesimo impegno burocratico. Caselle da barrare.

In verità esiste (resiste) un limite profondo tra paternalismo e accompagnamento, tra consiglio e parere. È inutile chiedere un consiglio a chi vive un mondo diverso dal nostro. Ha le sue aspirazioni, certo, però non deve crescere. Deve conservare. Trovare un mentore significa stabilire una conversazione, rispettosa. Il presupposto è un interesse che può essere al tempo stesso genuino (diremmo disinteressato) ma anche attivo. Ricordo lo shock di quando, saranno passati dieci anni, incontrai un noto giornalista americano a New York. Gli avevo scritto un’email, lui rispose, era curioso. Forse stava buttando quindici minuti del suo tempo, forse gli avrei raccontato qualcosa. Un po’ diverso dal terrore mascherato da indifferenza nel volto di qualche boomer quando arriva un nuovo collega, e chissà di chi è figlio questo.

Dunque nel 2022 proviamo a cercare un mentore. Forse ci capiremo un po’ meglio, cari boomer. Virgil Abloh era tecnicamente quasi un millennial. Nato nel 1980, aveva iniziato a lavorare con una internship da 500 dollari al mese. “Everything I do is for the 17-year-old version of myself”, diceva. A volte è un buon consiglio, e grazie per aver letto fino a qui.

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