C’era una volta una promessa

Questa è Ok boomer, la mia nuova newsletter. Nel primo numero ho spiegato perché ho scelto di farla nascere: puoi leggerlo qui.

Sono stato travolto dalle risposte di molti di voi, cosa che mi ha fatto piacere e soprattutto pensare. Molti mi hanno chiesto: e io? E io che sono nato nel 1979? E io che sono millennial ma non mi sento così giovane? Lo dico in partenza, qui non offriamo risposte facili. Evidentemente c’è poco di identitario come le generazioni, per quanto sia davvero un gioco arbitrario. Comunque, di etichette e generazioni: ne parliamo qui sotto. La newsletter nasce per provare a unire, per parlare, davvero non per dividere. Consideriamo un’indulgenza preventiva per i “noi” e “voi” fin dall’inizio? Li odio quanto voi (visto?) ma a volte funzionano (appunto).

Ognuno ha la propria sensibilità e nell’era della suscettibilità c’è una mozione, un sindacato, o almeno una petizione senza Spid per difenderla. Non sarà certo un caso se a pochi giorni dalla partenza di questa scomoda newsletter, l’Autorità per le comunicazioni nel Regno Unito ha etichettato come offensivo il termine boomer. Sì, sto scherzando, non c’è alcun complotto, spero la newsletter non sia scomoda, ma l’Ofcom ha davvero diffuso un elenco di parole considerate offensive e tra queste c’è boomer. Non sono vietate, bontà loro. Non succede niente a chi le usa, ma saranno considerate nei futuri reclami presentati all’autorità. Il Telegraph ha titolato: “Not OK Boomer“.

Ma andiamo oltre, via dal rumore faticoso della polemica. C’è una ragione se dedichiamo del tempo (grazie) a pensare a questi problemi, se usiamo un pezzo di attenzione (scarsa) per pensare a boomers e millennials.

Oggi parliamo di una storia: c’era una volta una promessa. Tutti abbiamo bisogno di credere a qualcosa, di essere qualcuno. La grande narrativa con cui sono cresciuti i millennials era: studiare più dei nostri genitori, imparare almeno due lingue straniere, riempire il curriculum di esperienze pronte all’uso per i datori di lavoro del nostro futuro. “La forza di una narrativa si basa in sostanza sulla sua capacità di aiutarci a far pace con un mondo complesso e confuso”, scrivono John Kay e Mervyn King in Radical Uncertainty. In effetti, mentre i primi millennials uscivano dall’università nel 2000 il mondo si andava complicando. Abbiamo preferito guardare alle opportunità di un’economia davvero globale, del digitale come grande motore della trasformazione, della logistica veloce e dei voli low cost.

Purtroppo, per una parte importante di questa generazione la promessa non ha funzionato. È bene dividere i millennials dai paesi di Europa e Nord America dagli omologhi cinesi (350 milioni di persone) o indiani. Dove c’è crescita – tralasciamo per un attimo il modello economico e i limiti democratici –, i millennials sono una generazione diversa che ha ragione di guardare avanti con fiducia. Dove l’incantesimo della crescita ha lasciato posto alla stagnazione, ai margini che diminuiscono, all’ossessivo taglio dei costi invece del focus sui nuovi ricavi (Mario Draghi ieri ha parlato agli industriali di produttività, infatti), ecco che i millennials pagano il conto. Non serve uno sforzo per individuarli, basta pensare ai propri amici, alla famiglia. Quanti figli, fratelli e cugini abbiamo “mandato” a Londra a studiare, e non sono più tornati? E quanti hanno trovato lavoro dovendo accettare una frazione dello stipendio dei loro colleghi più anziani?

Il problema non sono soltanto le illusioni perdute. E nemmeno una rivendicazione stanca. I numeri di oggi hanno conseguenze nel futuro. I millennials studiano più delle generazioni precedenti e in molti casi si indebitano per farlo. Quando entrano nel mercato del lavoro, che dopo la crisi 2008-2012 è ripartito, devono accettare stipendi più bassi perché le aziende che sono sopravvissute hanno consolidato il mercato, sono diventate più grandi e potenti nei confronti dei lavoratori. La conseguenza è che i millennials nei Paesi occidentali si sposano (se lo vogliono fare) più tardi dei boomers o della Generazione X e comprano casa (se ci riescono) molto più tardi. Nel 1990 i boomers che avevano 35 anni possedevano circa il 33% del real estate americano per valore. Nel 2019 i millennials di un’età simile ne possiedono solo il 4%. In Italia l’età media di chi acquista una casa è cresciuta fino ai 43 anni.

Comprare casa, simbolo per decenni dell’indipendenza raggiunta, sembra davvero complicato. Nel Regno Unito (non solo a Londra) un trentenne di oggi ha la metà della probabilità di avere una sua casa rispetto ai boomer quando avevano trent’anni. Negli Stati Uniti comprare una casa costa in media il 39% in più di quanto costasse negli anni Ottanta, superando ovviamente i miseri aumenti salariali. Un millennial su due, inoltre, sta ripagando il debito contratto per studiare, e deve rinviare l’acquisto. Si costruiscono meno case e dunque anche gli affitti crescono, soprattutto nelle città-hub dove si poteva trovare un lavoro interessante prima della pandemia. In Italia vivono ancora a casa dei genitori il 72% degli uomini tra i 18 e 34 anni e il 59% delle donne. Negli Stati Uniti, nel periodo 1960-1990 circa il 30% dei giovani americani viveva a casa dei genitori, negli anni 2010 siamo saliti al 44%, nel 2020 al 47%, prima dei lockdown. Su Google tra le ricerche popolari appaiono domande come “How long is it acceptable to live with your parents?” o “Is it shameful to live with your parents?”. Lo psicanalista ringrazia: magari sarà un millennial.

Non si mette su famiglia in casa di mamma e papà. Dunque anche i figli arrivano più tardi: negli Stati Uniti dai 25-26 anni dei boomers ai 31-32 dei millennials. Da quel laboratorio demografico che è l’Italia, dove al problema generazionale si sommano debito pubblico e una certa tradizione, come dire, a far prevalere i diritti di chi è arrivato prima, arriva una sentenza: nel 2020, per la prima volta nella storia del Paese, dice l’istituto nazionale di statistica, ci sono più figli che rischiano una regressione rispetto allo status economico e sociale dei genitori (26,6%) rispetto a quanti invece avranno la possibilità di migliorare le proprie condizioni (24,9%). Una decrescita non felice di opportunità.

Lo so, non sono solo numeri. Irene mi risponde al telefono da una piazza di Firenze, pronta a raccontarmi la sua storia. Ha 32 anni, due mestieri, di cui uno inventato di recente, un marito e un bimbo di due anni. Dopo una laurea in lingue ha capito che non voleva davvero fare la traduttrice e si è messa a studiare per fare la guida turistica (a Firenze sono in quattromila). Nelle sue parole si intuisce che è una persona entusiasta, che ha sempre cercato di prendere il buono da ogni situazione. Il lavoro come guida andava bene, prima del virus. Poi è rimasta incinta, l’ha comunicato all’Inps e per la maternità ha ricevuto un assegno da 85 euro al mese. La sua visione del mondo è cambiata in un istante: “Mi sono sentita in uno Stato del terzo mondo, contrariata. Io non sono anti-sistema, però mi è parso pesante da dover accettare. Sono fortunata perché mio marito ha un buon lavoro, ma se fossi stata sola? È impossibile con questo stato di welfare pretendere onestà dei cittadini”. Il virus per un po’ ha vuotato le strade e i monumenti di Firenze, Irene ha trovato un nuovo lavoro: fa la rappresentante per un’azienda che si è riconvertita e vende mascherine. Prima di salutarla, le chiedo di suo figlio, e sento che sorride. Si va avanti.

La crisi del Coronavirus non è stata infatti un’eccezione: ha amplificato e accelerato i problemi delle classi più giovani, tra cui i millennials. Dagli Stati Uniti all’Italia, dal Regno Unito alla Germania, i contratti temporanei, i lavori a termine o a chiamata, tipici della gig economy, vedono una grande prevalenza dei giovani. Dopo lo scoppio della pandemia, la Fed di St Louis ha stimato che il 16% dei millennials americani potrebbe avere problemi a far fronte a una spesa di emergenza da 400 dollari. La percentuale raddoppia al 32% tra i millennial neri. In Italia il governo ha preso una decisione estrema e inedita, vietando i licenziamenti per salvare i lavoratori. La scelta è stata molto criticata perché mette in dubbio la libertà d’impresa, ma ancora una volta è stata quasi ininfluente per i millennials. Alle aziende è stato impedito di licenziare, ma nel corso della pandemia 677 mila contratti temporanei in scadenza sono stati terminati. Gran parte di quei contratti riguarda lavoratori con meno di 40 anni. Gran parte di quei contratti riguarda lavoratrici donne.

La principale risposta a queste domande che arriva dalla classe dirigente italiana arriva sotto forma di un’alzata di spalle: è un’ammissione di impotenza rispetto alla realtà. Ci sono misure, tentativi, ma tipicamente ci vuole tempo e i governi italiani tipicamente non hanno tempo. Ne parleremo più a fondo, ma non basta: negli anni i cosiddetti giovani si sono sentiti chiamare (da onorevoli ministri della Repubblica) “bamboccioni”, o sono stati definiti “choosy” rispetto al mercato del lavoro. Nell’indifferenza generalizzata rispetto alla bomba sociale in via di costruzione, il simbolo del senso di colpa dissimulato della generazione baby boomer ha preso le forme di un grande avocado, frutto associato con i millennials, che secondo l’accusa, spenderebbero troppo denaro in weekend lunghi, caffè sofisticati e appunto, avocado toast. Qualcuno si è preso persino la briga di calcolare che, nemmeno azzerando la spesa per i costosi sandwich per quindici anni, nessun millennial sarebbe stato in grado di risparmiare il denaro necessario per un acconto per la prima casa. Anzi, i numeri della Fed chiariscono: siamo una generazione che spende meno di quanto facessero i boomers prima di noi. Il 52% dei millennials sta già mettendo da parte soldi per la pensione a 34 anni, avendo capito l’aria che tira, mentre tra i boomers della stessa età lo faceva solo il 42%.

Joseph C. Sternberg ha definito questa crescente tensione il furto del decennio, con un’accusa esplicita ai boomer. Perché è avvenuto tutto questo? Indicare il colpevole (che parola, lo so) può aiutare ma non risolve la situazione. Se ampliamo lo sguardo e riusciamo a ignorare i singoli aneddoti, la lenta evoluzione che vediamo parte da una nuova consapevolezza sulla sostenibilità della spesa pubblica. La pandemia ha travolto persino questa nuova consapevolezza e ci siamo messi a fare debiti quasi senza preoccuparcene. Ma la verità è che non sappiamo se ci possiamo permettere che lo Stato paghi l’educazione, la sanità e la pensione dei cittadini con gli stessi ritmi degli ultimi decenni. È evidente che dovrebbe farlo. Ma bisogna capire come senza fare ulteriori danni: è una domanda per l’Italia indebitata, ma vale anche per la Cina o per gli Stati Uniti.

Nella competizione fra imprese due fenomeni – la logistica low cost e il digitale – hanno favorito il consolidamento. Chi corre garantisce sempre più utili. Chi non ce la fa riduce i margini e taglia sul costo del lavoro. I più giovani pagano il conto. È naturale fare il confronto tra generazioni, ed è anche necessario. Ma non è abbastanza.

Prima, comunque, è giusto chiarire che qualsiasi definizione generazionale rischia di essere una semplificazione esagerata. Le etichette per classe d’età sono un male minore: utili per definire una massa ma inesatte nel descrivere i singoli. Questo vale sia per i boomers che per i millennials. All’interno dei gruppi ci sono sottocategorie diverse per età, geografia e fortune. “I millennial in verità non esistono”, ha scritto sul Financial Times l’editorialista Janan Ganesh (classe 1982), raccontando di essere stato fortunato a entrare nel mondo del lavoro prima della crisi del 2007. Posso aggiungere la mia esperienza: ho iniziato a lavorare proprio nel 2007 e nonostante il contesto fosse complicato, ogni anno è andato un po’ meglio. Quando ne parlo con un mio coetaneo che ha dovuto rinunciare alla carriera che aveva in mente e vive di fatto grazie al supporto economico dei genitori, sto molto attento alle parole che uso. O preferisco cambiare argomento. Abbiamo visto una storia diversa.

È andata così anche ad altre generazioni prima di noi, sicuramente. Anzi, ho pensato persino che siamo stati fortunati ad aver avuto almeno una promessa. Molti boomer sono cresciuti senza alcuna promessa, e soprattutto molte boomer non sono state cresciute con la promessa di libertà (“Devi solo scegliere quel che ti piace” era un’illusione, eppure) ma più banalmente subendo un’aspettativa, e quest’aspettativa non riguardava una brillante carriera.

Comunque, la narrativa che ci ha accompagnato e che ha costruito la nostra identità è nettamente differente. La televisione e la radio sono i mezzi che hanno raccontato la ricostruzione italiana, il boom e dunque i boomers. Le notizie e la loro interpretazione arrivava puntuale in salotto, con ritmo cadenzato, una patina di ufficialità, alle otto della sera con il telegiornale: non contestabile e dunque credibile. Soprattutto, uniforme e dunque uguale per tutti. Lo schema era: uno a molti. Non è più stato così: l’epoca digitale in cui i millennials (non veri nativi digitali) sono diventati adulti ci ha abituato a raccontare noi stessi e leggere gli altri cinquanta o cinquemila nella nostra rete sociale. Le rock star esistono ancora (e gli algoritmi le incoraggiano: si chiamano influencer) ma infine ognuno di noi ha pensato di aver diritto non solo alle proprie idee ma alla propria identità (a volte persino ai propri fatti, ma è un altro problema). Ognuno di noi – e questo non vale solo per i millennials – è portato a pensare che la propria esperienza debba prevalere su quella degli altri. Perché è mia, no? Perché tu vali, del resto.

Se le nostre informazioni non cadono più dall’alto, abbiamo pensato, se non sono le stesse per tutti noi, forse allora non è più necessario essere tutti uguali. Non più massa, ma individui. Le agenzie di marketing provano a descrivere cluster diversi di millennials, ma ci piace pensare che sia complicato.

C’è un po’ di ironia e rassegnazione nell’ammettere che, alla fine, individuare un nemico funzioni e riesca a unire anche i gruppi meno omogenei. Quando ho parlato di questa newsletter con qualche coetaneo, non ho dovuto spiegare. “Ok boomer” si capisce subito: sapevano precisamente di cosa stessi parlando perché l’avevano vissuto in prima persona parlando con un parente o un capo in ufficio. I meme, come quello che ha reso celebre la frase “Ok boomer” a partire dalla risposta di una parlamentare venticinquenne neozelandese a un suo collega più anziano, sono detestabili perché appiattiscono la realtà come una mietitrebbia su un campo di granoturco. Ma se non altro offrono un denominatore comune. Offrono una narrativa comune alla generazione frammentata.

C’era una volta una promessa. Illusioni perdute, abbiamo capito. È bene fermarsi, capirlo, e poi decidere di ripartire. Tutti conosciamo questa storia da vicino ma penso sia importante capirne il significato su due dimensioni. È una storia personale ma anche profondamente politica, riguarda te ma anche tutti gli altri, non credi?

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