Per chi votiamo

Nel primo numero ho spiegato perché ho scelto di farla nascere, nel secondo ho scritto di una promessa. Oggi parliamo di elezioni. Il voto di domenica e lunedì per eleggere i sindaci di molte delle grandi città d’Italia dovrebbe confermare una situazione che già conosciamo, e che è comunque sorprendente. Tutti sappiamo che vivere in città non è uguale a vivere in provincia. Eppure è singolare che in un Paese in cui i sondaggi ci dicono da anni che la maggioranza dei cittadini voterebbe per i partiti di destra, nella gran parte delle grandi città i sindaci potrebbero essere soprattutto di sinistra. C’è un divide geografico che ci pare di aver già visto anche in grandi eventi della storia recente, come Brexit, che va spiegato con ragioni variopinte. Queste sono elezioni per il sindaco: la persona conta più del partito. Ma l’incoerenza in qualche modo rimane.

Mi sono chiesto se esista però anche un divide generazionale e se abbia una qualche influenza sul voto. La risposta breve è: no. La risposta più articolata descrive bene il problema che vuole affrontare questa newsletter. Le generazioni più giovani sono minori per numero e dunque meno interessanti per chi si deve fare eleggere. I deboli partiti del desolante scenario politico italiano non hanno forza o idee per andare a prenderli perché troppo occupati dal rincorrere la fascia dell’elettorato più robusta numericamente. Così spesso le generazioni più giovani votano in modo meno fedele e a volte (ma non sempre, in verità) votano meno, prendendosi poi il rimbrotto per non essere state in grado di esercitare il diritto di voto. Ok boomer, proviamo a ricostruire. È un circolo vizioso, ovviamente, e da qualche bisogna partire.

Ho provato a chiedere a chi ne sa più di me, e Lorenzo Pregliasco, co-fondatore di YouTrend, si è presentato al caffè che avevamo organizzato per parlarne, a Torino. Siamo finiti a parlare così a lungo che ci siamo dimenticati di ordinare il caffè, ma recupereremo. Pregliasco mi ha confermato che non c’è, in effetti, un divide generazionale nel voto. Ma forse questo è parte del problema. Partiamo dall’anagrafe delle città: la popolazione residente è spesso mediamente più anziana della popolazione che ci vive ma non è residente, e dunque non può votare. Bologna, per esempio, ha più di centomila studenti: fanno parte della città, ma spesso non sono residenti.

C’è anche una caratteristica italiana, secondo Pregliasco, che va considerata. Storia recente: nel 2013 “c’era stato un solco notevole nel voto ai 5 stelle. Non solo era stato il primo partito, ma il partito egemone nella fascia più giovane. Nel 2018 invece il solco si è molto appianato”. Il progressivo crollo dei consensi del Movimento 5 Stelle assomiglia a un’ennesima illusione perduta. Ma è l’assenza del sistema bipolare tipico del Regno Unito e degli Stati Uniti a rendere complicato individuare una vera divisione. “La frammentazione dei partiti porta a una volatilità di voto molto forte, non c’è un partito dominante”, dice Pregliasco prima di ammettere, ed è il punto chiave, che “il voto giovane conta quel che conta in un paese vecchio. Nel momento in cui chi fa politica deve assumere decisioni, deve comunicare, si chiede quanti siano gli elettori delle varie generazioni, e quanto vadano a votare”.

È dunque vero che i giovani votano meno? Alle ultime consultazioni che hanno coinvolto tutto il Paese, le Europee del 2019, l’affluenza totale è stata del 54,5%. Nella fascia 18-24 anni ha votato il 43,6% degli aventi diritto, ma in quella 25-39 (i millennials) ha votato il 57,2%, dunque più della media. Osserviamo un fenomeno in movimento. Le presidenziali americane che hanno eletto Joe Biden hanno visto raddoppiare il peso degli elettori millennials e Generazione Z (nati tra il 1995 e il 2010), passati dal 14% del 2016 al 31% del 2020. I boomers sono diminuiti dal 61% al 44%. Anche gli Stati Uniti invecchiano, ma non velocemente come l’Italia. Dunque è difficile immaginare che nel 2023 alla scadenza della legislatura in corso i millennials siano altrettanto importanti.

Pregliasco mi dice che “una delle componenti fondamentali dell’astensionismo è la disillusione”. In parte sono persone che hanno avuto una fase di impegno e poi ci hanno rinunciato, in parte persone che non hanno proprio mai pensato di poter contare. Mentre parlava, mi veniva in mente Identity di Francis Fukuyama. Poi sono andato a cercare tra le note sul mio Kindle e ho trovato questo passaggio sul thymos, l’anima:

[when human beings] receive that positive judgment, they feel pride, and if they do not receive it, they feel either anger (when they think they are being undervalued) or shame (when they realize that they have not lived up to other people’s standards).

I millennials alle elezioni, finora, hanno capito chiaramente di essere l’amico non invitato alla festa. O meglio, l’amico che se viene va bene ma se no, insomma, la festa si fa lo stesso. Aggiunge però Pregliasco: “I giovani hanno ragione di pensare che l’attuale meccanismo non funzioni per loro. Ma probabilmente se la prendono con avversario sbagliato: non è colpa del capitalismo, ma del divario generazionale”. Il Guardian ha infatti scritto qualche giorno fa che otto giovani britannici su dieci incolpano il capitalismo per la difficoltà di trovare una casa. Il 67% vorrebbe vivere in un sistema economico socialista. Ma non liquiderei così in fretta la peggior forma di governo dell’economia, eccezion fatta per tutte le altre. Tocca alla politica riprendersi il primato, semmai questi numeri dimostrano la domanda di politica.

C’è dunque la politica Netflix, termine reso popolare in Italia proprio da Pregliasco per descrivere l’interventismo di figure “non partitiche, non elettorali” su singoli temi politici, dalla legge Zan al cambiamento climatico. Ci sono le marce per il clima, appunto, la raccolta firme online per il referendum sulla cannabis, l’attivismo da Instagram che appare ben più attraente di quell’amico che condivideva sul vecchio profilo Facebook qualsivoglia petizione.

Ma alla fine per il povero sindaco, per il poverissimo consigliere comunale, per quella città in cui forse abbiamo solo lasciato la residenza, o per la città che ci vive accanto mentre la nostra dieta mediatica mastica inglese e il lavoro remoto illude di abbattere la geografia, insomma, per questa gracile e concreta città, davvero andremo a votare? Ci interessa moltissimo quel che succede proprio sotto casa, ma già superato l’angolo, forse, ci sembra più lontano che mai. Pregliasco mi riporta sulla terra dal ragionamento e mi dice, semplicemente: per molti dei più giovani “non dai davvero per scontato che rimarrai lì, in quella casa, in quella città. Per una generazione più adulta cambia tutto, perché ti immagini lì”. E il tuo voto pesa.

Non la risolveremo qui e oggi, capisco, e quindi voglio chiedere a Lorenzo del suo lavoro. Perché ora posso svelare a chi non lo sapesse (l’avrete visto in una delle centinaia di dirette tv che si fa ogni anno), che Lorenzo ha 34 anni e ha fondato, dieci anni fa, la sua agenzia. Un’agenzia che studia la politica fondata da un ventiquattrenne, in Italia. Sorpresa? Le cose hanno funzionato. “C’è una dose di diffidenza e paternalismo molto significativa finché non hai almeno cinquant’anni”, mi dice ora, sorridendo, e come dargli torto. Quel che dice dopo è il consiglio più semplice e complicato: “All’inizio, senza molta esperienza, abbiamo lavorato molto sui contenuti. Abbiamo costruito un’operazione per cui erano i contenuti a parlare per noi”. Almeno i contenuti non hanno un’età. È quasi un programma di governo, e grazie per aver letto fino a qui.

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