La zanzara e il gattopardo

Questa è Ok boomer, e benvenuti ai (tanti!) nuovi iscritti. Qui ci sono le puntate precedenti. Se la newsletter ti sembra interessante e ti viene in mente almeno una persona che dovrebbe proprio leggerla, puoi inoltrarla e soprattutto suggerirle di iscriversi con un clic

Al lavoro! Tre giorni fa ho intervistato sul palco di una conferenza a Milano la country manager di Amazon per Italia e Spagna, Mariangela Marseglia. Abbiamo parlato di molti argomenti, ma ho voluto farle due volte una domanda, così, per essere sicuro della risposta. Le ho chiesto: come sta andando, davvero, il lavoro remoto? Finita la fase frenetica della continuità, un anno e mezzo dopo, come sta funzionando il processo decisionale, la capacità di inventare, discutere, lanciare nuovi prodotti?

Dall’inizio della pandemia i lavoratori white collar (che non hanno più bisogno del white collar, tra l’altro) di Amazon in Italia sono cresciuti del 30%. Questo significa che centinaia di persone assunte potrebbero non aver mai visto i nuovi colleghi. Le cose cambiano e anche Amazon, a livello globale, ha dovuto cambiare idea: a marzo l’azienda disse che si aspettava il ritorno a “una cultura basata sulla centralità dell’ufficio”. Ma nemmeno Amazon, con il potere indiscusso che ha sul mercato dei talenti, può resistere all’emergere di nuovi standard. Chi può, chiede di lavorare da dove vuole, in modo remoto o comunque flessibile, e persino Amazon si adegua. Non significa liberi tutti, saranno i responsabili dei vari team a definire le modalità di lavoro. Il Ceo Andy Jassy ha citato l’idea che i lavoratori siano comunque non così lontani, dunque a disposizione per venire in ufficio con un giorno di preavviso. Ma è ancora un cantiere.

La risposta di Marseglia è dunque una conferma ma anche una sorpresa. Mi ha detto che il lavoro remoto sta funzionando molto bene, anzi persino meglio rispetto a prima. Se conosco un po’ il modo di operare di Amazon, devo immaginare che ci siano decine di analisti che hanno studiato le performance interne degli ultimi mesi, e hanno concluso che la linea office-centric non era poi così l’unica via.

Pensavo a tutto questo, dunque, provando a segnare mentalmente le novità. Ma ho quasi incontrato una difficoltà nel ragionamento. Provo a spiegarmi: di lavoro remoto, di prima e dopo, abbiamo letto e scritto per mesi e mesi. Come qualsiasi cosa nuova, all’inizio siamo sorpresi, forse spaventati, forse persino esaltati. Non ci avevamo pensato prima! Subito la mettiamo in discussione, la analizziamo. Facciamo dei tentativi, torniamo indietro, proviamo degli annunci per vedere che effetto fa. Poi il tempo crea un consenso (è l’unico sollievo del passare del tempo), abbiamo capito quella cosa nuova, risolto quel problema. Sui giornali ne scriviamo un po’ di meno perché il tema ci sembra già arato. Finalmente ci possiamo occupare di altro e magari saremo un po’ migliori.

È in quel preciso respiro, di solito tra le parole finalmente e migliori, che fa capolino come un’imperterrita zanzara, una decisione che senza apparente gravitas, smentisce tutte le riflessioni, i ragionamenti, il tempo investito finora. In quell’istante, nel chiudere gli occhi e scegliere un po’ così, perché ci va, l’Italia sa primeggiare. Così, nonostante buone pratiche, tentativi, e ovviamente anche difficoltà, i lavoratori della pubblica amministrazione sono tornati sostanzialmente tutti in ufficio. L’Inps (l’Inps!) aveva registrato grazie al lavoro agile un aumento della produttività del 12,5%? Poco importa. Altro che zanzara, è un Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Le ricerche e i sondaggi si sprecano, ma nel privato sembra in effetti prevalere l’idea di una flessibilità crescente. Cosa farà la pubblica amministrazione? Si metterà a pensare e tra dieci anni inseguirà quel che fa il privato.

Arrivati fin qui, potresti chiedermi: che c’entrano le generazioni? Garantisco di conoscere millennials molto incapaci di lavorare da casa e boomers eccellenti nella gestione del proprio tempo. Una riforma ragionata del modo di lavorare, finito (fingers crossed) il tempo dell’emergenza, non può che essere positiva. Ma i cambi di standard vanno colti quando accadono, non inseguiti con anni di ritardo.

Uno dei problemi principali nel dialogo tra generazioni sono le abitudini. Il peso dell’abbiamo-fatto-sempre-così, anche se quel fatto è stampare un file e poi scansionarlo e poi inviarlo con un allegato da 12 megabytes. Ogni volta che succede qualcosa del genere, non soltanto muore un albero: muore il nostro tempo libero o meglio liberato. Fuori dall’aneddotica, la fatica dell’inerzia è il principale problema del vecchio modo di lavorare, e dunque, moltiplicato, delle chances di un Paese di essere contemporaneo. Questa rivoluzione del lavoro, arrivata con il trauma, poteva essere una grande occasione. In parte lo è già stata. Poteva anche essere una spinta gentile a far lavorare assieme generazioni diverse, perché a guidare non era più l’abitudine ma la delega, la rendicontazione, la fiducia necessaria, degli obiettivi. Si poteva fare, e invece, convintamente, la parte che più ne avrebbe bisogno, viene lasciata indietro. 

Ogni volta che un dipendente pubblico (o privato, per carità) perde due minuti per un compito che potrebbe svolgere nella metà del tempo, quel tempo non si potrà recuperare.

Il tempo, in fondo, è tutto ciò che abbiamo. Dunque, buon weekend.

Vuoi iscriverti a Ok boomer?

Iscriviti

* indicates required

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *