Perché non siamo quitters

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Prima di partire, un promemoria paradossale per una newsletter che si intitola come una generazione. Questo bel pezzo del New Yorker spiega puntualmente perché non esistano le generazioni, o meglio perché dovremmo smettere di parlarne. Il problema, ammette l’autore, sono in verità le generalizzazioni che non riusciamo a evitare. Ma qui abbiamo già parlato di etichette, della loro imperfezione congenita. Quasi sempre i veri fattori a modificare le opportunità di un singolo hanno a che fare con classe, geografia, etnia, genere. Quindi accolgo il promemoria, eppure insisto: i millennials non sono affatto tutti uguali, ma in particolare in Italia, il tema generazionale mi sembra ancora rilevante.

Questa settimana mi sono incuriosito a leggere di un nuovo termine che descrive una particolare classe di lavoratori, soprattutto negli Stati Uniti. Vengono chiamati quitters, coloro che rinunciano, perché sono persone che scelgono di lasciare il proprio lavoro. Nel solo mese di agosto, negli Stati Uniti, sono stati 4,3 milioni, il 2,9% dell’intera forza lavoro. Da gennaio ad agosto hanno lasciato un posto di lavoro in 30 milioni. Non c’è una sola ragione che possa spiegare il fenomeno, ma si possono fare una serie di considerazioni: chi lascia un lavoro può farlo e dunque spesso lo fa per trovarne uno migliore e guadagnare meglio, o vivere meglio. Il mercato c’è e cambiare non è considerato un tentativo disperato. Anzi. I settori più colpiti sono quelli del commercio e della ristorazione. Molte aziende rincorrono le nuove esigenze dei dipendenti che non vogliono rinunciare al lavoro remoto. Le cose cambiano.

Dunque leggevo dei quitters e provavo a pensare all’Italia. Non sono riuscito a trovare una statistica analoga, e nell’ultimo rapporto Istat sul lavoro, relativo al 2020 c’è anzi il crollo delle dimissioni. Ma poi ho pensato: it’s the economy, stupid. In Italia la disoccupazione è al 9,3%. Dunque niente quitters. Anzi, l’ufficio, il lavoro è una delle arene dello scontro generazionale silenzioso: per le conseguenze sui redditi e in generale sulla coerenza tra identità e aspettative.

La promessa non mantenuta vale anche nella sfera professionale. Un report del think tank New America stima che gli americani con meno di 34 anni guadagnino in media il 20% in meno di quanto facessero i baby boomers negli anni Ottanta, nonostante livelli di studio siano superiori. Cosimo, 38 anni, pugliese-milanese, mi conferma i numeri con esattezza sconfortante. Del resto, fa il revisore dei conti in uno dei più grandi gruppi bancari europei. Mi spiega al telefono dal suo ufficio (il salotto di casa, al momento) come nascano le differenze in busta paga senza dare nell’occhio. “Le generazioni più anziane, che non hanno conosciuto il precariato e il lavoro flessibile, danno per scontati gli integrativi, che una volta erano abbondanti e ora miseri. Ora non è più così”, spiega. Rispetto al contratto nazionale dei bancari, l’integrativo offerto dalla banca dimagrisce e dunque il principale metodo per aumentare la propria busta paga sono gli scatti di anzianità. Due persone fanno lo stesso lavoro: probabilmente il più giovane ha una laurea e un master mentre il più anziano ha solo un diploma, ma hanno stipendi profondamente diversi.

La storia di Cosimo, comunque, fa sempre parte dell’insieme di chi viene portato a sentirsi fortunato: in Italia tre giovani occupati su dieci guadagnano meno di 800 euro lordi al mese. Non si può chiedere loro di progettare un futuro in queste condizioni.

Ma non è solo una questione di soldi, e al di là dei numeri, paradossalmente non ci sono solo effetti negativi: la cornice di precarietà ha modificato il ritmo con cui cambiamo lavoro. Non saremo quitters, ma sappiamo quanto sia improbabile che rimarremo nella stessa azienda per sempre. A volte cambieremo proprio mestiere, mentre i nostri colleghi meno giovani sono in gran parte nella stessa impresa in cui hanno iniziato a lavorare. C’è dunque un approccio più laico al lavoro: l’aspetto positivo di sentirsi costantemente messi alla prova è l’attitudine ad analizzare le situazioni, provare a capirle. Dunque: accettare compromessi ma sapendoli chiamare con il loro nome, o mettere in discussione pratiche abusate, in primis il labile confine tra lavoro e vita personale. Anche se troviamo lavoro nella migliore azienda del mondo, sappiamo bene che non ci staremo per sempre: il 38% dei millennials cerca lavoro anche se ne ha già uno, secondo una survey di Pwc. Chi sarà quell’utente privato che ha appena guardato il tuo profilo su LinkedIn?

In molte delle aziende dove lavoriamo siamo consapevoli che i nostri colleghi guadagnano di più di noi soltanto per questioni di anzianità. E sappiamo tristemente che probabilmente una collega femmina sarà pagata meno di un uomo, anche se svolge lo stesso compito, e forse ha studiato più di lui. Non è accettabile. Fino a ieri si è fatto finta di niente, ora il nodo non si può ignorare: è una bella sorpresa scoprire che quando un diritto, per esempio la parità di salario tra i generi, diventa standard, non è più pensabile tornare indietro. A proposito: la parità si raggiunge dal basso, la legge è utile ma non basta, come spiega Marta Fana. Siamo ancora a metà del guado.

Uno dei problemi che i millennials riscontrano, secondo la survey di Pwc, è la difficoltà nel dialogo con il senior management. Il 38% del campione dice che i manager più importanti non coinvolgono i lavoratori più giovani; il 34% dice che la forte motivazione personale dei millennials è persino un problema nei rapporti con le altre generazioni. Tradotto: oltre al danno, c’è la beffa, perché i giovani sono pagati meno e criticati se hanno troppo spirito d’iniziativa, ovvero se non sanno stare “al loro posto”. Se lavori per tutta la vita nella stessa azienda, è facile accettarne i ritmi e le abitudini. Spesso le carriere dipendono anche da legami di fedeltà professionale. Il tempo non sembra un problema. Se invece sei stato assunto per un progetto e sai che l’amministratore delegato si aspetta dei risultati, lavori con più fretta. Questa è una vera e propria rivoluzione per i rapporti interpersonali, per la geografia degli uffici. Nel mirino c’è un totem indiscutibile fino a poco fa: l’organizzazione gerarchica.

È dunque molto divertente scoprire che qualche anno fa proprio Pwc abbia vissuto sulla propria pelle un caso da manuale. In una survey interna dei propri consulenti il gruppo ha scoperto che le istanze avanzate dai millennials sulla possibilità di lavorare da remoto, sul lavoro serale o sulla trasparenza dei compensi, erano in verità condivise anche dai colleghi più anziani. Solo che i nostri boomers cuor di leone, nonostante fossero più in su nella scala gerarchica, non osavano alzare la mano e chiedere di cambiare! Da quel momento l’azienda ha introdotto varie innovazioni che poi hanno migliorato la vita di tutti e sono tra l’altro risultate cruciali quando nel mese di marzo del 2020 gran parte degli uffici nel mondo sono stati chiusi per limitare la diffusione del coronavirus.

Quando l’ufficio diventa un click sull’icona di Zoom, come cambia l’organizzazione? Come si fa carriera su Zoom? Generazioni di lavoratori hanno trangugiato le abitudini e accettato la confusione tra presenza e presenzialismo. Cristina ha 26 anni e mi risponde un po’ sottovoce perché dove lavora, in un’azienda che produce il (meraviglioso) aceto balsamico di Modena, alla fine del primo lockdown, il capo ha fatto capire a tutti che era ora di “tornare a lavorare”, come se il lavoro fatto in remoto non fosse lavoro. “Penso di essere molto fortunata perché il mio contratto è stato rinnovato durante la crisi – dice Cristina, inconsapevole di mettere in scena ancora una volta la sindrome dell’impostore –, ma abbiamo ancora bisogno di cambiare mentalità. Nonostante l’evidenza, i capi sono scettici, ed è un eufemismo, sullo smart working”.

In una nota azienda pubblicitaria milanese l’amministratore delegato ha accolto i lavoratori dopo il lockdown con un’email con l’oggetto scritto tutto in lettere maiuscole. Diceva “LA FESTA È FINITA”, nonostante tutti i dipendenti avessero lavorato anche se chiusi in casa, e alcuni nonostante fossero in cassa integrazione.

I millennials possono avere grande stima di un capo, ma si chiedono perché mai dover restare in ufficio fino a che lo stesso capo non se ne sia andato. Chi lo capisce, si aggiorna. Gli altri continuano a perdere terreno, e grazie per aver letto fino a qui.

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